Archid de Pit, lo gnomo.

Storia di un Artefice

Quello che mi appresto a scrivere non vuole essere propriamente un testamento, ma viste le condizioni in cui mi trovo, ho timore possa diventarlo. Quando mi sono imbarcato su questo mercantile per attraversare il Mare di Yover mai avrei pensato che questo sarebbe potuto diventare la mia tomba. Aimè la tempesta ha colto la nave impreparata e in questo momento che scrivo posso sentire le grida provenire da sopracoperta, il trambusto, il correre a destra a manca del vento che con violenza sferza la chiglia. I marinai urlano, si agitano ed eseguono gli ordini del capitano per combattere questo nemico invisibile.

Chissà chi l’avrà vinta questa guerra.

In qualsiasi caso, se mai i miei gentili traghettatori dovessero perdere la battaglia e qualcuno dovesse ritrovare questo scritto, ecco la descrizione del cadavere che dovrebbero andare cercando per ritrovarne il suo autore: uno gnomo, alto poco meno di 95cm, 125 anni di età; pelle bianca e barba leggermente grigia solo sul mento; baffi, bianchi anch’essi, lunghi e dritti verso le estremità; occhi nocciola e occhiali da fabbro su cappello con patta corta, bassa e dritta; capelli come il resto della peluria, corti e mal tenuti. Indosso (se le onde saranno state magnanime con me) una leggera armatura in cuoio, un gilet dalle mille tasche sopra, guanti in pelle marroni. Sulle mie spalle trovano alloggio un baule in pelle da viaggio e il mio fidato moschetto, illustre pezzo di finissima arte manuale: la mia. Autocostruito ormai più di 70 anni fa quando, ancora un piccolo gnomo-scolaretto, frequentavo la scuola del mio villaggio, Esmin (un posto adorabile. Ai piedi di monte Farroco stretto tra la foresta da un lato e la china della motagna dall’altro, magnifico). Tutto nacque in un noioso pomeriggio di primavera; tornavo verso casa dopo aver giocato con i miei compagni quando, passando vicino alla miniera nanica di Kuritavo sentii alcuni nani discutere di strani fuochi che “magicamente” si accendevano nei cunicoli della miniera sotto i pesanti colpi dei loro picconi. “Magia e fiamme” accesero una miccia in me, un po’ come quella che io, qualche giorno dopo accesi per la prima volta in casa mia: mi feci accompagnare da alcuni nani, fattisi corrompere con qualche bacca di bosco, presso uno dei tunnel in cui più di frequente questi avevano assistito allo sprigionarsi delle fiamme; colpii e colpii al roccia fino a che anche io non riuscii a produrne: non era magia, ma tale poteva apparire (la magia vera ebbi modo di conoscerla per davvero solo molti anni dopo). Scavai un po’ di roccia attorno a quegli angoli di muro che inspiegabilmente prendevano fuoco e me li portai con me a casa. Giorni e giorni di studio, prove e scampati incendi mi permisero di affinare, che dico, costruirmi da zero una conoscenza su questa pietra nera con sfumature rosso sanguigne che se resa polvere e violentemente percossa poteva incendiarsi ed espandersi.. esplodere direi. Ecco, fui rapido a mettere assieme questa mia nuova, incredibile conoscenza con quello che uno gnomo meglio sa fare: costruire cose: presi una balestra, gli rimossi i bracci e le corde, fissai un tubo il metallo sul suo dorso, inserii una freccia dal fronte, un poco di polvere nerosangue (così la chiamai) nell’altra estremità del tubo, premetti il grilletto e BAM, mi arsi completamente le sopracciglia ma ecco, la freccia non c’era più (nemmeno la finestra verso cui la puntavo a dire il vero) era sparita alla mia vista per andare a conficcarsi su un ramo di quercia distante dalla mia camera quasi 150mt. Fu il mio primo traguardo. In pochissimi mesi a forza di tentativi, esplosioni e rimaneggiamenti il mio marchingegno aveva raggiunto la capacità di colpire con sufficiente precisione una ghianda posta ad ameno 300mt di distanza. Ho divagato!

Se qualcuno avesse poi necessità di perquisire il mio corpo esanime per constatare la presenza di qualche altro oggetto utile al mio riconoscimento, ecco forse sarebbe meglio mettere in guardia il malcapitato di prestare massima attenzione a tutti quegli oggetti magici che trovano posto tra le mie tasche. Io non sono un essere magico, in fondo sono solo uno gnomo e nessuno nella mia famiglia ha mai intrattenuto rapporti con esseri arcani; io la magia la possiedo, la padroneggio, la faccio mia, come un fluido! Se la magia è bile di tasso, io da essa non sono composto (giammai aggiungerei, quale olezzo poi dalla bile animale!) come un immateriale contenitore io la imbriglio e ne scelgo il luogo di reclusione, confinamento. Una volta confinata la magia che tramite le mie mani si plasma, ecco che l’arcano ha trovato luogo senza passare da me. Arte dura da padroneggiare questa! Mi ci volle quasi mezzo secolo di studio presso la Magistrale Scuola di Tecnica Arcana, la più antica (nonchè unica) istituzione magico-gnomica delle montagne Orumise (chissà come mai la magia non si sia mai così davvero sviluppata tra la mia specie, oibò, mistero). Vivere quotidianamente a oltre 2000mt non fu particolarmente un problema per me, abituato come ero a muovermi su e giù per le pendici del mio monte Farroco, passare dall’essere uno degli gnomi più brillanti e intelligenti del mio villaggio a dover dimostrare quotidianamente le mie abilità ecco, quella fu la vera sfida dei miei anni accademici. Non fraintendete le mie parole, quegli anni non furono eccessivamente difficili per il sottoscritto, anzi! Ma fu molto destabilizzante passare da un ambiente in cui ogni sfida di intelletto era vinta senza quasi mai colpi ferire, ad uno stimolante, quotidiano impegno richiesto per anche solo restare in pari con i miei nuovi compagni. Ah i miei compagni.. tutti “grandi” gnomi (se grande si può dire di uno gnomo), studiosi instancabili, implacabili ammaestratori di magia, ammaestratori, ecco cosa eravamo! I nostri professori non ci insegnarono la magia, noi non la possedevamo, ma ci insegnarono ad ammaestrarla, a fargli fare quello noi volevamo, non ad essere quella che è, ma a piegarsi al nostro volere: eravamo dei conquistatori e non lo sapevamo. Ogni giorno guadagnavamo terreno, un fazzoletto di terra strappato al caso e alla caoticità dell’Arcano per portare l’ordine dell’ingegno! Ah, dei pionieri. Ora che ci penso, ora che butto giù questi pensieri per iscritto, mi rendo conto che forse no, non tutti eravamo pionieri in questo.. ricordo il professore Vointer, docente di meccanica, che spesso si lasciava andare a lunghi sproloqui su come il fondere due mondi, quello della tecnica e quello magico, non fosse assolutamente una buona idea. Temeva che la magia avrebbe con il tempo fagocitato la meccanica e con essa la nostra capacita di esercitarla; diceva che se di un costrutto non comprendiamo il funzionamento di un arto, possiamo sempre smontarlo, studiarlo e sostituirlo con qualcosa di a noi più congeniale, ma provate voi a fare lo stesso con la magia, provate voi a riscrivere o sostituire il potere che scorre nelle vene di uno stregone o le lettere di una formula di un mago: la magia è opaca e una volta che si impossessa di voi vi rende ciechi a vostra volta. Lo allontanarono, accadde 5 anni prima che terminai i miei studi. Non so che fine fece, ma di sicuro so che fine fecero i suoi insegnamenti su di me: divenni un eccelso costruttore, nonchè a dispetto di quello che professava, un ottimo infonditore; ricordo che vi discussi una volta subito dopo una delle prime infusioni che sperimentai sul mio moschetto: era affascinato dalla mia arma, e allo stesso tempo terrorizzato da quello che sarebbe potuto succedere se avessi (o avesse, l’moschetto) ceduto alla magia. Non mi disse nulla di nuovo, sorvolai.

Se poi nella tasca sinistra del gilet, in alto giusto davanti al cuore, doveste trovare una pietra oblunga, non molto spessa, liscia e biancastra e che, se cozzata contro qualcosa di duro emette luce (ve ne prego non rubatemela, ora vi dirò perchè) ecco, avrete la certezza di trovarvi di fronte alle mie spoglie: è un frammento di luminosite che un halfling, decenni e decenni addietro, mi diede. Mi pare il suo nome iniziasse per K, non ricordo bene. Mi salvò la vita tenendo alla larga le bestie della notte con la luce di quella pietra e con le freccie del suo arco. Me la diede infine, così da poter tenere alla larga eventuali predatori anche in assenza di un fuoco vivo (o della sua protezione). Vorrei molto potergli dimostrare che ho imparato le lezione! Chissà che fine fece…

Vi è silenzio in sopracoperta. O sono tutti morti ed io sono l’unico superstite di questa nave o la guerra contro il vento è stata vinta da questi legni! Penso che in qualsiasi caso le scorte di Rum di questa nave verranno intaccate, se non da me solo per combattere la solitudine, dalla ciurma intera per festeggiare la vittoria. Alla fine non sarà (per ora) un testamento. Me lo porterò comunque al petto dato che non si sa mai quando si dovran tirare le cuoia, nevvero?. Che il mio viaggio verso le più nuove e mirabolanti invenzioni della tecnica prosegua allora. Chissà se mai troverò un fratello al mio moschetto?

Dr. Archid de Pit


Ok, cosa ho appena letto (di nuovo)?

Questo (meno) breve racconto è il background di Archid, piccolo (non so perchè mi ostini a fare personaggi piccolini) gnomo artefice, che nei prossimi mesi mi accompagnerà come nella nuova campagna di Doungeons And Dragons che stiamo per iniziare!.

Ho ricevuto nuovamente carta bianca dal Master (ri-ciao Rudy!) per scrivere il background di Archid. Dato inoltre che la classe dell’Artefice non è presente nel manuale base di DnD, ho voluto dilungarmi per dare maggior risalto possibile a piccoli dettagli che desidero siano fondamentali. Un esempio è l’uso dell’moschetto: dato che vorrei sviluppare Archid sulla via dell’archetipo Artigliere, mi sembrava doveroso iniziarlo al mondo della polvere da sparo già dal suo background.

Ah, e volevo assolutamente inserire Krikit in questa narrazione e sì, ci sono riuscito. Sono fiero di me di esser riuscito a creare un ponte tra questi due miei personaggi!

:)